Alberto è un obeso omuncolo untuoso e piriforme sulla cinquantina, dall’aspetto sgradevole e dalla cultura modesta. Tutto questo, a volergli bene. Fortunatamente si accontenta di poco e, nel suo caso, anche il poco è troppo.
Il buon Alberto vive con la madre in un tristo casermone che pare appositamente progettato come luogo di passaggio per esistenze che non hanno niente da dire e che comunque nessuno vorrebbe ascoltare.
La madre Carmela è una calabrese over 70 che si esprime in un italiano stentato, casalinga da sempre con la pensione di reversibilità del marito morto, i cui orizzonti spaziali, sociali e culturali non si spingono oltre le colonne d’Ercole delle botteghe di quell’asfittico quartieraccio a ridosso della zona industriale, presso cui abita e fa la spesa da decenni. Il suo vocabolario è limitato a ricette, maledizioni e una serie di proverbi incomprensibili e trascorre le giornate a cucinare, lamentarsi di tutto ciò che non capisce e del fatto che il mondo sia cambiato senza chiederle il permesso.
Come quasi tutte le persone condannate dalla vita al fallimento e alla marginalità, Alberto vive in un suo piccolo mondo fatto di abitudini stanche e ripetitive ma impossibili da rifuggire. In particolare Alberto ha la passione per le puttane. Le puttane negre, nello specifico.
Non è ben chiaro se le prediliga per gusto personale o se la ragione risieda piú concretamente nel fatto che, vista l’altissima frequenza di ricorso al meretricio, il suo stipendio da bidello non gli permetta la prima scelta dell’Est Europa o comunque una pigmentazione piú chiara.
Normalmente le raccatta all’area di servizio vicino all’areoporto. Il bar è aperto giorno e notte H24 ed è il luogo perfetto ove lui e i suoi degni compari attendono le disoneste smontanti, tentando di rimediare uno sconto in cambio di un passaggio.
In ogni caso, è un puttaniere compulsivo, ma si compiace di pensarsi un gentiluomo e le signorine se le porta a casa la sera, spesso restano a dormire da lui e, nel caso, la mattina offre pure loro la colazione.
L’ottusa donnetta di sua madre, mezza ciecata dall’età e poco avvezza alla fisiognomica subsahariana, stenta a riconoscerle come persone diverse e, nonostante il fatto che alcune siano molto diverse tra loro, presto si convince che le varie battone portate a casa dal figlio siano “la sua fidanzata”, a cui Alberto attribuisce tempestivamente il nome forfettario di Rita.
Nello stesso palazzo, uno o due piani piú sotto, vive Christian, tossico menomato nella mente e nel corpo che avete già avuto modo di conoscere.
Christian vive relativamente in pace con se stesso. Non gli interessano le donne, non ha hobby, non ha passioni e non ha alcuna ambizione. Il suo lavoro alle pompe funebri gli basta per drogarsi regolarmente e lui non cerca altro.
Non mi dilungheró ulteriormente su questo derelitto, un po’ perché ne ho già narrato le prodi gesta e un po’ perché in questa storia ha un ruolo marginale.
Il nostro caro Christian ogni tanto deve ottemperare agli obblighi di famiglia ed andare a trovare la nonna paterna a Catania, che non sia mai che schianti e poi lasci tutti i soldi a qualcun’altro. Ovviamente questo non è un pensiero figlio della la mente semplice ed elementare di quel mentecatto, incapace di concentrarsi su qualcosa di piú a lungo termine della prossima striscia, bensí di sua madre, avida e astuta mignotta in pensione, ben consapevole che mezza famiglia del marito (al momento al gabbio o nascosto da qualche parte, non ricordo) stia appollaiata come famelici avvoltoi sulla spalliera del letto della vegliarda, in attesa di saltare sul malloppo, e che quindi ogni tanto convenga farsi vedere, mostrare affetto e preoccupazione.
Nella vita si possono fare tanti sbagli e, quanto a Christian, basta guardarlo in faccia e sentirlo parlare trenta secondi per capire quanto quel torsolo sia una collezione vivente di tutti i peggiori errori che un uomo possa fare nella sua vita. Uno peró ancora mancava alla sua ricca raccolta, cioé la malaugurata idea di lasciare le chiavi di casa sua a Crauto.
Non so che razza di scusa si sia inventato Crauto per circonvenire l’incapace, fatto sta che riesce a farsi consegnare le chiavi di quel tristo ricovero di fortuna arredato con vecchi mobili traballanti, scatoloni rammontati un po’ ovunque, muffa pelosa in ogni angolo, stagnole bruciate e ovviamente l’igiene di un bastone da pollaio.
Crauto negli ultimi anni si è dato una bella ripulita: ha abbandonato o quantomeno rarefatto gli stravizi, è riuscito a conservare un lavoro e si è messo con un’insopportabile megera, stolta, ignorante, antipatica, isterica e perennemente incazzata ma che peró ha l’indubbio pregio di avere una casa.
Quando peró la vita domestica si fa troppo avvilente e oppressiva, il nostro eroe si concede qualche ritorno alle vecchie passioni di puttane e cocaina. E così, quando Christian gli lascia le chiavi, la tentazione è troppo forte: la bettola diventa il perfetto rifugio per qualche avventizia serata in cui trovano parte i peggiori reietti sociali ormai privi di sogni, di speranze e spesso anche di denti.
Ad uno di questi lieti simposi di personaggi che la società ha elegantemente evitato di integrare, le due zoccole sudamericane invitate da Crauto (molto fregne, a dire il vero) pensano bene di portarsi dietro Zucchero di Palle.
Orbene, chi è Zucchero di Palle?
Zucchero di Palle è un lardoso trans brasiliano tra i quaranta e i cinquanta che batte nella zona e di cui la gente che vive di giorno vocifera come di una sorta di mostruosa divinità pagana. Alto, grasso e privo di qualunque femminilità, per cui ne parleremo sempre al maschile, ha una voce roca plasmata da anni di tabagismo e superalcolici scadenti e si veste e si trucca in un modo talmente eccessivo e inappropriato per il suo fisico da sembrare una grottesca parodia ideata con intenti dispregiativi e denigratori da qualche associazione di cacazzi omofobi.
Fui io stesso anni fa a battezzarlo in quel modo quando una sera, in un barraccio della zona, soppesandosi il pacco e ridendo soddisfatto, dichiaró ai presenti di avere “mezzo chilo di palle”. Io capii “zucchero di palle”, l’espressione riscosse successo presso gli avventori e da allora cosí viene chiamato.
A serata già avviata, il buon Crauto, nella sua incarnazione da tossico infame e opportunista, pensa bene di convocare anche Alberto, per fargli azzuppare un po’ il savoiardo con una delle due fiche e poi scaricare su di lui buona parte delle spese della serata.
“Vieni subito. Ho una Rita deluxe per te. Roba di prima scelta.”
Alberto, che nella sua squallida routine fatta di lavoro, madre e puttane, vede in Crauto un navigato uomo di mondo e una sorta di guida spirituale, per quanto la sua spiritualità consista solo nel trovare nuove miserie in cui sprofondare, non ci pensa due volte. Si fa una bella doccia, si spalma ovunque un’imbarazzante quantità di dopobarba dell’Eurospin, prende dalla dispensa un mezzo pacchetto di biscotti, per non presentarsi a mani vuote, e scende al piano di sotto.
“Alberto, amico mio… posso presentarti le mie amiche? Alexandra e Adriana, consoli onorari della Colombia, e la dottoressa Zucchero di Palle.”
“Piacere…”, mormora in modo confuso Alberto, stringendo goffamente le mani a tutti, ammaliato dalle due gnocche, che ridacchiano inebetite dalla cocaina, e atterrito da quella specie di uruk hai in autoreggenti, che tracanna rummaccio da discount direttamente dalla bottiglia.
L’allegra compagnia prosegue tra bicchierini, strisce e sterili chiacchiere prive di costrutto, con un imbarazzato Alberto che non si droga ma beve per la noia mentre ascolta discorsi che non gli interessano, attendendo con docile e spaesata pazienza il buon prosieguo, giacché il maestro Crauto gli ha spiegato che con le mignotte di classe non si va subito al dunque ma ci si prende il tempo di instaurare un certo feeling.
Il buon Crauto peró sottovaluta la scarsa tolleranza all’alcol di Alberto che dopo un’ora scarsa è già ubriaco. Repentinamente decide di spedirlo in camera a scoparsi l’Alexandra, provvidenzialmente scurotta, prima che sia troppo sbronzo per consumare e trovarsi quindi a dover sborsare. Putroppo peró pare esser troppo tardi.
Dopo una decina di minuti Alexandra, visibilmente infastidita, torna al tavolo dichiarando “Tu amigo es borracho. Il cazzo non gli sta su y si è dormido mientre glielo tenevo en mi mano.”
Il colpaccio dei soldi è saltato ma, colà dove il gretto e avido bottegaio vede una perdita, il Crauto piú genuino e di sani ideali vede un’opportunità. E per il Crauto piú genuino e di sani ideali non esistono soldi, fica o droga che valgano quanto una sana risata e una bella storia da raccontare.
“Zucchero, via… facci un piacere e provaci tu. Senza fretta. Ti metti lí a letto con lui e aspetti che si riprenda un po’.”
Il pingue viado non se lo fa ripetere due volte: dà una lunga sorsata allo sverniciatore che qualcuno ha rietichettato come rum, si accende l’ennesima MS e ridacchiando raggiunge Alberto a letto.
Come si chiude la porta, Crauto schizza in piedi, raggiunge la porta di casa di Alberto e poi si attacca al campanello.
“SIGNORA, PRESTO! ALBERTO SI È SENTITO MALE! CORRA! ALBERTO STA MALE! PRESTO! PRESTO! AIUTO!”
“Bruttu ‘ndifamatu, chi stai facennu cu chiru uòmmoc?”
La vecchia si staglia sulla porta della buia camera con la luce alle spalle, gettando la sua pesante giudicante ombra su quell’immondo sodalizio di lardo, colpe, malesseri ed errori esistenziali. Tra i due buzzoni non è successo niente, ma Carmela ovviamente non lo sa. E nemmeno Alberto.
L’urlo della genitrice desta il buon Alberto dal suo sonno degli ingiusti, sbalzandolo in turbinio di confuse e caotiche vergogne: di botto, senza sapere come e perché, si ritrova in maglietta e calzini, senza mutande, a letto con Zucchero di Palle, con sua madre sulla porta che urla accidenti incomprensibili probabilmente anche a lui.
“Disgraziatu ‘nvertitu, e iu ca mi fici tutti i pinseri ca almeno tu era vinutu comu Cristu comanda!”
“No, mamma aspetta… io… cioé…”
Il povero Alberto, stordito dall’alcol, dal brusco risveglio e dalla situazione inaspettata non sa come rispondere all’inviperita madre.
“Ma ciao, mami!” dice Zucchero di Palle ridacchiando.
“Non ti vergognare, Albé! Siamo nel 2025! Esci allo scoperto!” gli urla Crauto unendosi al caotico coro di urla da mercato.
“Iu mi sciuccu a pregari tutti i jorna pi tia e pi Rita, e tu t’a futti cu stu schifu!”
Alberto è una mente elementare, per volerla dire con un benevolo eufemismo: ha già difficoltà a gestire l’ordinario, figuriamoci l’imprevisto o addirittura una situazione di crisi, per giunta ubriaco.
La sua reazione è quella di una gallina spaventata.
Si alza dal letto e inizia a correre a scatti su e giú per la casa, coprendosi il moncherino con la felpa appallottolata, sovrastimolato dalle urla dei presenti.
“Purcu maiali! Almenu to frati è nu malandrinu, ma ci piàcinu i fimmini!”
“Non fcappare Alberto! Dai una poffibilità all’amore!” urla Crauto mentre gli cadono di bocca pezzi dei biscotti di Alberto, che sta sguaiatamente mangiando a bocca aperta per le risate.
“Torna aqui, meu fofinho!” urla Zucchero di Palle con un vocione da orco, stravaccato sul letto come un immondo incrocio tra Paolina Borghese e una balena marcia arenata sulla spiaggia.
“Ihihihih”, ridono stupidamente le due colombiane, ancora sedute al tavolo col naso infatinato.
Qualcuno suona il campanello, probabilmente per il caos e Crauto ovviamente corre ad aprire.
“Ma va tutto bene?” chiede con aria sospettosa il signor Mario, condomino dei piani alti, mentre la signora Antonietta, vicina di piano di Christian, si allunga per sbirciare da dietro di lui. “E poi voi chi siete?”
“Tranquillo, tutto a posto, siamo amici di Christian. Purtroppo al momento è in corso una lite per questioni di gelosia tra Alberto, sa… quello del quarto piano, e il suo fidanzato transessuale brasiliano obeso. Capirà che sono questioni delicate, quindi confido nella vostra discrezione. Volete entrare per assicurarvi che non vi siano situazioni di rischio per la sicurezza o la rispettabilità del condominio?”
La signora Antonietta, la classica pettegola ficcanaso d’ordinanza, in dotazione ad ogni condominio, non se lo fa ripetere due volte: spinge avanti il signor Mario ed entrano entrambi.
“E vui chi cazzu ci facìti cca? Jtìndivinne subitu! Facìtivi i cazzi vostri! Turnati a casa vostra!”
“Guardi signora che questa non è nemmeno casa sua eh!” questiona la signora Antonietta da dietro la spalla di uno spaesato Mario, stordito dal vocìo, disgustato dal letamaio in cui versa l’appartamento e chiaramente incantato dalle due fiche seminude che ridacchiano al tavolo.
“Scinniti subitu di cca ca giuru sulla Madonna ca facciu ciccia di purcu!” strilla ancora più forte la vecchia, temendo per il buon nome e l’onore della casata, brandendo il bastone verso di loro in un bellicoso quanto poco convincente gesto di minaccia.
“Calma, calma… Io ho un’idea. Ci sediamo tutti insieme e cerchiamo di far riappacificare Alberto con il suo amore travestito.” dice Crauto con aria conciliante e profondamente responsabile, prima di accendersi una sigaretta ricurvo sui fornelli della cucina.
“Si, facciamo la pace, Albertinho mio…” urla Zucchero di Palle fattosi sulla porta della camera.
A questa terrifica apparizione, il signor Mario fa uno scossone atterrito e, a occhi fissi e sbarrati come se avesse visto una specie di Shub-Niggurath emergere dall’ombra, arretra verso la porta aperta, spingendo via anche la signora Antonietta che continua a polemizzare.
“Tu torna a ‘ncunnìrti, schifu di Diu e du Diavulu!”
“Ihihihihih…”
Alberto, visto Zucchero di Palle sulla porta, va ancora piú nel pallone, rimbalzando per la stanza senza alcun senso o ragione come una pallina nel flipper.
Sul pianetottolo si affaccia altra gente, probabilmente attirata dal gran baccano.
“Ma che è ‘sto casino?”
“Signori, per favore. Comportiamoci civilmente. Stiamo imbarazzando Alberto e la sua fidanzata col cazzo.”
“Ihihihihi…”
“Guardi signora Carmela che lei non puó fare cosí che lei non è mica a casa sua lei è in casa degli altri e poi non è il modo di rivolgersiadunapersonache…”
“Via! Via tutti! Ca Diu vi pigghia nu sonnu!”
Alberto inciampa, cade a terra, sgambetta sgraziatamente a cazzo di fuori, si rialza traballando verso la porta per scappare via da quell’appartamento lurido, da quell’immondo e sformato budino male assemblato accanto a cui si è svegliato e con cui non sa cosa effettivamente possa aver fatto, da quell’improvvisato tribunale che lo sta giudicando senza alcun titolo, da tutto quel terribile carosello di traumi che deve subire per aver provato ad uscire di appena un passo dalla sua avvilente ma sicura routine. Giura a sé stesso che non lo farà mai piú.
Appena Mario e l’Antonietta sono sul pianetottolo e lasciano un varco, Alberto arranca fuori, trovandosi tragicamente davanti ad altra gente. È ubriaco, stravolto dall’accaduto, vestito solo con maglietta e calzini, sudato fradicio, col battito impazzito.
Qualcuno urla, qualcuno ride, in casa il baccano continua alle sue spalle.
“Iti a schattari malu a casa vustra prima ca vi squartu come i crapi, maliditti du Signuri!” urla la vecchia con quanto fiato ha in gola, facendosi sulla porta e lanciando verso la gente una scatola di cartone piena di piatti e stoviglie varie. La scatola sbatte sul corrimano di metallo, si apre liberando rovinosamente per le scale il suo contenuto di piatti e bicchieri.
La vecchia urla come un’arpia.
Le gente per le scale pure.
Alberto sviene, crollando seminudo sul pianerottolo, offrendo le sue miserie all’impetosa vista dei presenti.
Crauto è sulla porta, impettito, che applaude serio e solenne come al teatro.
Come faccio a conoscere questa storia con dovizia di particolari?
Semplice. Mi è stata raccontata poche ore dopo da Crauto e Zucchero di Palle in persona.
16 Commenti
Primo, dio appestato!
Cari uomini che hanno un orientamento sessuale omosessuale, sono molto contento di vedere che siete tornati a postare, porca Madonna scopata in culo da Gesù frocione abusato. Vi ho scoperti da poco e debbo dirvi che vi considero un faro di tolleranza in questo mondo omofobo e filisteo.
Lancio anche un appello a chi volesse condividere con me qualche amena seratina in sagrestia assieme a don Paolo, don Giulio e l’allegra corte dei busoncelli traviati sulla via delle sante comunione e prima confessione: se volete incontrarmi ci vediamo davanti all’asilo comunale di Borgo Culandra; mi riconoscerete perché mi farò trovare cagato addosso in omaggio a questo bel sito.
Ora passo a leggere l’articolo.
Un caro saluto dal vostro,
Dott. Bianco Candore
Eccoci di nuovo qui a segnalare un contenuto etereo come non ve n’erano da tempi immemori.
Che la poesia svetti su tutto!
Egregio dott. Candore, guardi che qui non ci sono ricchioni.
Qui ci sono amanti del cazzo, il che è cosa diversa e ben piú raffinata.
San Luigi martire benedice questo sito
https://i.ibb.co/d4PBx74S/file.jpg
Esimio Glande Purpureo,
capisco bene la distinzione che cerca di introdurre, e Le faccio presente, che, seppure uomo di scienza, non sono estraneo alle considerazioni di carattere estetico cui Lei fa riferimento. A titolo d’esempio mi limito a riportare una performance in cui mi sono prodotto tempo addietro, che non ha mancato di suscitare il plauso della critica più autorevole: lo spettacolo è stato da me realizzato per mezzo di un mix tra atletismo coreutico e rigorismo intellettuale, ed è consistito nel significare ad un pubblico non del tutto pronto, e perciò tantopiù ricettivo, tutta l’abissalità delle convulsioni che s’agitano entro il mio animo nobile e tormentato, per mezzo di una forma inedita di action painting. La rendo edotta dei procedimenti tecnici non per pedanteria o per sopravvalutazione dell’importanza degli aspetti formali, ma soltanto per la loro valenza diegetica ai fini della comunicazione: la performance è stata da me eseguita dipingendo su parete uno schizzo esplosivo misto di materia fecale e seminale. Per ottenere un’ampia gamma cromatica mi sono servito di campioni spermatici raccolti dopo lunga ricerca tra i profilattici in mezzo a cui mi sono messo a carponi per tutta una piacevole settimana nei vicoli campestri del dopolavoro dei viados della tangenziale sud della mia rispettata città della media pianura padana. Una volta selezionati i grumi di sborra più elegantemente intonati, li ho introdotti all’imbocco del retto aiutandomi con l’unghia del mignolo, che avevo precedentemente modellato sull’esempio di quella del cinese mi rifornisce di preadolescenti asiatiche per il commercio di organi, e me li sono fatti spingere a fondo da Consuela. Ho guarnito il tutto con peperoncino jalapeno e abbondante sale, così da ottenere un ambiente acido che favorisse una fermentazione controllata, e al momento opportuno ho schizzato lo spruzzone di merda e burrata sul muro e sui completini delle mie compagne di palcoscenico. Mi sono poi allontanato con studiata trascuratezza.
Tutto questo per dire che capisco benissimo ogni forma d’arte e raffinatezza estetizzante, per cui ben comprendo la Sua osservazione sul piacevolezza del cazzo a prescindere dagli orientamenti sessuali e dalla busoneria.
E tuttavia rimango un uomo di scienza.
E in effetti, avendo io eseguito la performance suesposta al momento del pronunciamento del giuramento di Ippocrate, ho realizzato di non essere stato pienamente presente in ispirito nel ripetere l’avita formula. Cosicché uno scrupolo, forse eccessivo ma tormentoso, ha iniziato a possedermi, facendomi chiedere ossessivamente se la distrazione durante la solenne dichiarazione di adesione all’etica e deontologia medica, non avrebbe potuto inficiare la mia opera di pediatra molestatore seriale. Per porre rimedio, e qui arrivo al Suo appunto, ho deciso di integrare gli studi clinici a una seconda ben più scientifica laurea, e mi sono iscritto a Gender Studies. Soldi e tempo ben spesi, mi creda. E dall’alto della mia competenza mi permetta di dirglielo: siamo tutti un po’ ricchioni. E m’azzardo a sbilanciarmi a dire anche: abbiamo tutti un lato femminile.
Ossequiosamente,
dott. Bianco Candore.
Crauto e Christian insieme nello stesso episodio?
Ora capisco perché i nerd buzzoni erano così eccitati dai film del Marvel Cinematic Universe.
Fino all’ultimo ho sperato che saltasse fuori Jacopo Pogrom.
Spett.le redazione, stimati colleghi, gentile pubblico,
scrivo questa lettera aperta in risposta alle numerose domande che mi sono state poste, sia per iscritto sia a latere dei cicli di conferenze e lectio magistralis che sto tenendo, in seguito alla pubblicazione della mia risposta all’illustre prof. Glande Purpureo, proprio su queste pagine. È ormai generalmente noto che laydo.eu, seppur principalmente dedita alla filosofia e al pensiero speculativo, è assurta a rivista di riferimento per gli appassionati di medicina, sia tra noi professionisti, sia tra i cultori laici della materia, e di questo fatto non ho colpevolmente tenuto il debito conto nel comunicare le mie esperienze nella di cui sopra. Posto che il clinico o ricercatore che volesse replicare gli esperimenti del nostro team è invitato a riferirsi all’ormai classico articolo di Lancet, passo dunque a chiarire le questioni che mi sono state poste da più parti o che ho ritenuto di particolare interesse. In primo luogo è doveroso dissipare i dubbi di carattere deontologico riguardo la divulgazione delle nostre esperienze: quanto a questo abbiamo ottenuto il benestare del comitato etico dell’Ospedale Cuoricino del Bel Bambino Gesù, presso cui opero in qualità di pediatra molestatore seriale. Il parere autorevole del comitato verrà a breve pubblicato da Obiettore Oggi o da Aborto Giammai; non c’è ancora una data ufficiale, ma ne ho avuto assicurazione diretta tanto da Sua rev.ma em. Cardinale Giangoebbelz, quanto da Padre Pederastio, congregario apostolico dell’ordine dei cappellai scalzi, in occasione dell’orgia giubilaica pentecostale per giovani seminaristi, proprio al momento del solenne atto del brindisi col seme del Santo Padre. Ciò chiarito, passo alla questione più controversa, che riguarda i campioni spermatici utilizzati nell’esperimento. Qui si nota un’interessante e istruttiva differenza tra i dubbi dei clinici e quelli dei ricercatori e dei cultori laici. I secondi tendono a interrogarsi maggiormente riguardo la gamma cromatica del liquido seminale , laddove le domande dei primi vertono più spesso sulla fermentazione controllata. Il motivo è che nelle condizioni di laboratorio non siamo ancora riusciti a replicare con accettabile accuratezza la realtà sul campo. Laddove infatti quando introduciamo schizzi di sborra raggrumata nel retto di volontari, questi si mescolano regolarmente producendo tinte spente e di nessuna profondità, chiunque abbia una pur minima esperienza di reparto sa che in prima linea le cose vanno molto diversamente! Tutti sanno che ogniqualvolta nei reparti di terapia intensiva scatta una rissa tra infermieri e inservienti, il medico di turno non deve far altro che estrarre dal paziente comatoso intorno cui si consuma l’increscioso incidente il tappo di sborra, scappellare gli energumeni, confrontare il colore della formaggia prepuziale e dei vari strati di sbubba tirati fuori dal culo del bell’addormentato, per ricostruire in che ordine è stato inculato nell’ultimo giro, stabilire i turni del nuovo round di svuotamento di coglioni e far tornare la pace. L’occhio esperto del medico è sempre necessario, in questi casi, per distinguere tra le croste di sperma e lo smegma, che solitamente anche l’infermiere più ricchione non sa discernere con certezza; sappiamo del resto che per il dottore è anche una sempre gradita occasione per raccogliere un po’ di fragranze aromatiche cun cui arricchire i caffè necessari per affrontare i lunghi turni notturni. Sommessamente mi permetto di stigmatizzare l’ignoranza di queste banalità da parte dei colleghi ricercatori; è del tutto comprensibile che l’appassionato laico non conosca questi fatti di esperienza quasi quotidiana per il medico ospedaliero, ma che un collega, ancorché operante prevalentemente in laboratorio, dia mostra non esserne avveduto, getta un’ombra riprovevole sulla nostra classe, già così decaduta dai tempi gloriosi del Mengele e dello Shiro Ishii.
Da tutto ciò comunque si capisce che la sborra tende a rimanere distinta nel buco del culo se ci si mette a riposo dopo averla introdotta. Nella mia precedente comunicazione avevo spiegato come fossi rimasto a carponi per una piacevole settimana, nella mia ricerca dei grumi di sbubba più graziosi, e il tempo impiegato dipendeva proprio dalla necessità di rimanere prono per un tempo congruo dopo l’inserzione di ciascuno di essi. Quanto alla domanda postami prevalentemente dai clinici, che verte intorno alla fermentazione controllata, rispondo che è stata ottenuta grazie all’aiuto di Consuela. Mi scuso per non aver ben specificato la cosa, ma non avevo controllato la letteratura. Il fatto è che la pratica è ormai di prassi nei laboratori, dove possiamo sempre trovare un travone per spingere nel culo dei volontari la sborra, quando si vogliono ottenere fermentazioni acidolattiche; ma effettivamente non ci sono ancora pubblicazioni che abbiano divulgato questo accorgimento tecnico di rito. In buona sostanza, dunque, la faccenda si è svolta così: PRIMA, nel vicolo dei trans, mi sono infilato i grumi di sperma coll’unghia del mignolo, dando loro il tempo di stabilizzarsi per ottenere una gamma cromatica elegantemente intonata, POI mi sono fatto spingere a fondo da consuela con la nerchia la sborra, insieme al sale (preferibilmente integrale) e al peperoncino jalapeno (preferibilmente bio).
Concludo esprimendo la mia gioia per il fatto che la nostra classe, pur nelle mille difficoltà che la nostra epoca riserva a chi intraprenda il cammino della medicina, non trascura di interessarsi all’arte, nutrimento dell’anima IMPRESCINDIBILE per il discepolo di Esculapio. Invito infine chi volesse ripetere la mia performance a non farlo al momento del giuramento di Ippocrate, a meno che non si senta poi pronto a intraprendere il difficile cammino dei Gender Studies. Rimango a disposizione per chiarimenti o proposte, mi trovate nel terzo cesso dell’autogrill di Balenghio inferiore sud,
Cordialmente,
Dott. Bianco Candore.
Ao Bianco Candore, ste cazzate che scrivi non fanno ridere…
risparmia tempo
Mio buon internet lento,
io eviterei certe esclamazioni regionalmente connotate, che potrebbero suggerire la falsissima idea che Roma sia popolata da crasse plebi parassite, buone solo a motteggiare grevi, e che pretendono di essere intrattenute, oltre che mantenute lardose e indolenti, dalla classe de magnoni che degnamente le rappresenta e sugge tutto quello che può dal resto di questo paese di disgraziati, di cui la capitale, nell’immagine che ne dai col tuo “ao!”, sarebbe la versione grottescamente esasperata in ogni difetto, ben più di Napoli, che voialtri sfottete col piglio del buon terrone, che, per sentirsi un po’ meno zozzo, cerca un terrone più terrone di lui da perculare, invece di provare a smetterla di usare la strada davanti casa come cacatoio.
Un consiglio d’amico che ti do, anche per farti capire che l’ho presa con sportività, non ci sono affatto rimasto male.
Ammazza che pippone! Guarda che un ‘ao’ non è un manifesto politico né un trattato sociologico, è solo un’esclamazione. Se poi ci vuoi leggere tutto questo, fai pure, ma mi sa che ti stai complicando la vita da solo.
Detto ciò, mi fa piacere sapere che l’hai presa con sportività… anche se non si direbbe.
Cari laydi, vi copio e incollo un commento pubblicato su Facebook da un certo Leonardo Zampi, che credo meriti maggior attenzione e spero possa invogliare questi indolenti fancazzisti a scrivere di piú.
“Signori (in senso letterale), dovreste seriamente valutare di pubblicare questi Racconti Laydi in un libro. Qui potenzialmente sta nascendo un genere letterario, il Laydismo.
Esso può considerarsi un erede del verismo e del neorealismo, ma da questi si distacca per una marcata maggior “sincerità”. Se infatti un Zola o un Verga raccontavano le periferie urbane e la disastrata umanità che vi abitava con un certo (inconscio?) pietismo aristocratico-borghese di chi, in quei mondi, non c’aveva mai realmente messo piede (se non di sfuggita), gli Autori Laydi raccontano realtà vissute il più delle volte in prima persona.
Le vicende narrate nei Racconti Laydi sono troppo imbarazzanti per gli standard della buona borghesia progressista, quella che si compiace di dichiararsi ultra-a-favore dei diritti delle persone trans, salvo poi sbigottirsi – come il Mario del racconto in oggetto – quando se ne trovano una davanti. Gli Autori Laydi, al contrario, in questo mondo ci sguazzano e ci si divertono come maiali nel fango: e, nonostante il linguaggio apertamente sprezzante e giudicante (agli antipodi di quel politicamente corretto con cui i benpensanti credono di assolvere al loro impegno sociale), insegnano che, quando c’è da fare una “zingarata”, non c’è orientamento sessuale, colore della pelle o religione che conti.
I Racconti Laydi non hanno alcuna pretesa: certo non vogliono far la morale a qualcuno, e neanche produrre velleitarie denuncie sociali: solo “una sana risata e una bella storia da raccontare”. Perché, pare essere il sottinteso, in questo mondo in putrefazione la “sana risata” ogni tanto è l’ultima gioia rimasta – a parte l’alcool e qualche droga – a vaste fette della popolazione.”
Vorrei spezzare una lancia a favore dell’interpretazione del Dr. Bianco Candore anche se, per quanti sofismi possa fare, a me pare essere poco più di uno spingimerda, per quanto laureato (probabilmente in qualche università sudicia o veneta).
Non è quindi per difendere i suoi orientamenti sessuali animaleschi che intervengo, ma per stigmatizzare l’impoverimento culturale della nostra società che traspare inequivocabile dall’uso del romano.
Che altro è se non un manifesto politico l’uso di un regionalismo, sia che ci appartenga, sia che non lo si mutui da altri?
Mi è infatti capitato di sentir usare “espressioni” come Daje ed Ao (poco più che versi scimmieschi, a dire il vero) anche da persone nate in terre civilizzate, suscitando per altro approvazione ed assenso negli astanti altrettanto non romani. Questo abominio (non trovo parola migliore) mi riempie di sgomento.
Citando l’ottimo (finale Darwiniano a parte) American History X:
Che cosa non ti piace di loro? E cerca di dirlo con ferma convinzione!
Odio il fatto che è fico essere un romano (negro) al giorno d’oggi, odio l’influenza negativa che hanno avuto gli stornelli (l’hip hop) nei quartieri di periferia bianchi e odio Matteo Salvini (Tabitha Soren) e i suoi amici sionisti di Rete 4 (MTV) tutti porci che ci dicono come dovremmo vivere, risparmiaci la tua me**a retorica Giorgia Meloni (Hilary Rodam Clinton) perché noi vogliamo avere un paese pulito!
Ricordo quando l’allora principale mezzo di comunicazione, la televisione, spostò il suo baricentro dall’Africa dei vari Sordi e Verdone alla Padania di Tognazzi e Bongiorno.
Ricordo che Bossi, pace all’anima sua, soleva dire:
“Roma ladrona!”
“Quelli della Lega ce l’hanno più duro!”
Ecco quello che manca alla politica pluto-giudaico-massonica-buonista-finto razzista di oggi!
La feccia non sono i napoletani, che chiunque sappia distinguere le scimmie dai muli detesta, o i veneti, tanto primitivi da non sapersi mischiare alle italiche genti in virtù del loro deficit linguistico, ma i romani che, con la loro finta allegria ed il loro fare “caciarone” destano simpatia nei più ingenui tra noi, corrompono i nostri costumi con il loro uso smodato di guanciale e pecorino e, ovviamente, rubano il lavoro (senza poi farlo) e le donne (senza poi farsele).
Esattamente.
Per quanto indubbiamente sudici (quasi quanto i toscani e i sardi, handicappati tanto nell’animo quanto nel retto), i veneti e i napoletani (che non hanno nemmeno compiuto gli studi di genere, ricordiamolo), non sono comunque paragonabili ai romani, o, peggio ancora, ai viterbesi.
Quanto all’accusa di busoneria, ribadisco quel che mi hanno insegnato i miei studi scientifici di gender, ben più avanzati di quelli di medicina, corrotti dal patriarcato e dal neoliberismo: abbiamo tutti un lato femminile. Tranne, naturalmente, le “donne” romane e bresciano-bergamasche.
Nota sul decadimento borghese nel sottoproletariato urbano
Il caso di Alberto rappresenta un interessante punto d’osservazione delle dinamiche degenerative innescate dalla lunga erosione della coscienza di classe nelle aree marginali della metropoli post-industriale. Egli è un individuo adiposo e trascurato, espressione fisiognomica dell’alienazione, di età imprecisata ma approssimabile alla mezza età, il cui orizzonte culturale e morale è tanto angusto da renderlo paradigma dell’“uomo qualunque” deprivato di ogni tensione emancipativa.
Alberto vive con la madre Carmela, una pensionata calabrese, in un agglomerato residenziale che potremmo definire prodotto tipico dell’urbanistica d’emergenza: un casermone progettato per ospitare, senza dignità né progetto, residui umani espulsi dal ciclo produttivo attivo. Il loro ambiente domestico è saturo di routine, superstizione, ignoranza funzionale e dipendenza da strumenti di riproduzione culturale passiva.
Carmela, emblema del patriarcato interiorizzato e della soggettività colonizzata dal piccolo mondo domestico, si aggira per casa emettendo sentenze prive di razionalità, riflesso di una tradizione orale deprivata di senso storico. Il suo lessico è limitato al campo semantico della cucina, della maledizione e della rassegnazione.
La sessualità di Alberto, compulsiva e disfunzionale, si esercita in una modalità degradante e mercificata, figlia diretta del crollo dei legami sociali e dell’assolutizzazione dell’individuo-consumatore. Egli consuma prostituzione come consumerebbe un bene di prima necessità, con una predilezione apparentemente etnica che, con ogni probabilità, si radica non in un desiderio estetico consapevole, ma in una determinazione economica: il costo inferiore del corpo razzializzato e marginalizzato.
Le lavoratrici del sesso che Alberto frequenta vengono sovente introdotte nell’ambiente domestico, con una ritualità grottesca che ricalca goffamente i rapporti sentimentali “normati”, mediati dalla madre che, per ignoranza e deficit cognitivo, confonde le presenze e attribuisce a tutte il nome forfettario di “Rita”.
Nel medesimo contesto abitativo risiede Christian, individuo menomato e tossicodipendente, altro sottoprodotto del collasso della responsabilità collettiva in ambito sanitario e sociale. La sua funzione lavorativa nelle pompe funebri e la sua esistenza basata sull’autosomministrazione di stupefacenti descrivono perfettamente la traiettoria di esclusione totale dal ciclo vitale della produzione/riproduzione capitalistica.
Crauto, compagno di disgrazie, rappresenta la figura archetipica del lumpenproletario in fase di transizione. Ha parzialmente abbandonato gli eccessi, trovando rifugio in una relazione sentimentale altrettanto alienata, che gli garantisce però l’accesso a un tetto. Egli simula una forma di normalizzazione, ma resta strutturalmente incapace di una reale integrazione, come dimostra il rapido ricadere nei circuiti del sesso mercificato e dell’abuso di sostanze.
Quando Christian lascia incautamente le chiavi del proprio tugurio a Crauto, quest’ultimo trasforma la misera abitazione in centro temporaneo di aggregazione para-criminale, catalizzatore di marginalità, in cui convergono prostitute, transessuali e soggetti affetti da disagio psichico e/o sociale.
Il personaggio di “Zucchero di Palle” è una caricatura tragica della sovversione dell’identità in regime di spettacolarizzazione mercantile. Transessuale di origine sudamericana, di corporatura imponente e abbigliamento grottesco, egli/ella rappresenta un eccesso performativo della dissoluzione del genere operata non come atto di emancipazione ma come esito di una sopravvivenza estetizzata all’interno del circuito della prostituzione. La sua presenza nella narrazione è fortemente simbolica: è la materializzazione dell’incubo borghese sulla “diversità” sessuale non conforme, ma anche il risultato della stessa logica che oggettifica i corpi per profitto.
Il climax narrativo si consuma nella grottesca pantomima orchestrata da Crauto, che, nel tentativo di trarre divertimento e denaro da Alberto, lo fa trovare nudo e confuso accanto a Zucchero di Palle, richiamando poi la madre con un falso allarme. L’intervento di Carmela, carico di furore arcaico e superstizioso, provoca un’ulteriore spirale di disordine, richiamando nel microcosmo dell’appartamento la comunità del pianerottolo, composta da figure stereotipiche del piccolo borghese ossessionato dal decoro e dall’ordine.
Il tentativo di ridicolizzare Alberto di fronte al vicinato ha l’effetto di esporre brutalmente il processo di normalizzazione della devianza nel contesto del sottoproletariato urbano: nessuno dei presenti agisce sulla base di una logica di solidarietà, né si interpella sulle cause strutturali che hanno prodotto simili soggetti. Si ride, si urla, si giudica, ma nessuno si interroga.
Alberto, umiliato e traumatizzato, fugge come un animale ferito. La sua reazione è un riflesso pavloviano alla perdita di controllo: non sa se ha realmente compiuto l’atto che gli viene attribuito, ma la vergogna è tale da marchiarlo a fuoco. Il giudizio sociale, portato avanti con sadismo da un contesto altrettanto deviante, ma abile nell’occultare le proprie perversioni sotto la coltre dell’ipocrisia, lo annienta.
In definitiva, questa vicenda, apparentemente caricaturale e grottesca, non è che la rappresentazione allegorica del collasso della comunità proletaria, lasciata senza guida ideologica, schiava delle proprie pulsioni, esposta alle derive dell’industria del piacere e della droga, e incapace di elaborare una via d’uscita collettiva. Una società socialista evoluta, con una struttura educativa e culturale fondata sull’eguaglianza e sull’emancipazione, non avrebbe mai prodotto né Crauto, né Alberto, né Zucchero di Palle. Ma li ereditiamo, oggi, come scorie della lunga notte del capitalismo in decadenza.