Godi Fiorenza…

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…poi che se’ sì grande, che per mare e per terra batti l’ali, e per lo ‘nferno tuo nome si spande!

Dubito che il buon Dante immaginasse dopo più di 5 secoli dalla sua morte qualcuno gli avrebbe dedicato una statua nella sua Firenze. Ma soprattutto che, dopo un altro secolo e mezzo, la sua statua avrebbe funto da pisciatoio e nascondiglio per le scorte di droga di mori spacciatori venuti dal moscoso caldo.

Arrivando da Corso Tintori, sbuco in piazza Santa Croce cercando di isolare in suo splendore dalla crosta di letame che la ricopre. La piazza che nel 1530 vide i fiorentini giocare una storica partita di calcio col precipuo scopo di irridere le truppe imperiali che assediavano la città, è oggi invasa dalle scorie di questa epoca nefasta.

Sulle scale davanti alla chiesa, ragazzini urlanti, vestiti come scarti sociali di Harlem, si atteggiano con pose scimmiesce a duri del ghetto, imbenzinandosi di alcol da due soldi comprato al minimarket pakistano più vicino.  Vedo bottiglie vuote di birra e vodka dai nomi mai sentiti prima, presumibilmente edibili quanto lo sverniacitore per le porte. Stanotte rigozzeranno l’anima e domani piangeranno per i postumi della merda che hanno ingurgitato e bestemmieranno il Cristo e giureranno di non farlo mai più. Ma lo rifaranno dopodomani.

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Il razzismo. Quello bello!

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E’ una gelida sera invernale.

Io e l’amico Crauto ci aggiriamo svogliatamente e improduttivamente per il centro di Firenze, sorseggiando due birre in plastica, in quel malinconico stato mentale di quando non sei uscito perché avevi voglia di uscire ma perché non avevi voglia di stare in casa.

Le strade sono quasi deserte, giacché il glaciale vento che serpeggia per i vicoli fiorentini ha contribuito ad annientare la già parca movida del lunedì sera. In piazza Santa Croce sono assenti persino gli spacciatori.

Il caso vuole che il nostro ramingo e pigro peregrinare ci conduca di fronte ad uno storico locale ormai in decadenza. In passato è stato un nome di punta nelle notti fiorentine ma oggi ciò che resta degli antichi fasti è un lercio cacatoio sito in una delle peggiori e malfrequentate vie del centro, gestito da uno staff improvvisato e quasi completamente privo di una clientela abituale, fatta eccezione per qualche spurgo sociale a scelta tra tra tossici, spacciatori, albanesi o magrebini in cerca di brighe e disagiati vari.

Normalmente lo eviteremmo come il banchino di quegli stronzi che ti chiedono la firma contro la droga, ma il fato vuole che questa sera sia evidentemente strapieno, che il resto della città sia deserto e che ciò attiri inevitabilmente la nostra curiosità.

Come ci avviciniamo all’ingresso, ci si para davanti un buttafuori: un energumeno africano di due metri che mugugna suoni gutturali. Leggi tutto »

Lunga storia triste

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E’ l’inizio di maggio, mi sono appena lasciato e finisco con un amico ad una festa universitaria a Firenze. Bevo come una spugna, probabilmente mi drogo pure, do di fuori di brutto, rimorchio una tipa e finisco a casa sua a scoparmela in ogni orifizio. Mi ricordo veramente poco di quella sera, per cui immagino vorrete perdonare la pochezza narrativa di queste righe introduttive.

Fatto sta che il giorno dopo mi sveglio a letto in una casa sconosciuta, con la vescica che mi scoppia e dei terribili postumi: nausea e conati, testa che rimbomba, occhi che pulsano e incrostati di cispa, visto che la sera prima non mi sono certo curato di togliermi le lenti a contatto. Me la prendo col Cristo e la sua mammina santa per quanto faccio schifo, mi alzo sui gomiti e cerco di rimettere insieme le idee, trattenendo al contempo gli infernali conati che mi assaltano.

Mi guardo intorno ancora assonnato. La stanza è un napolaio di prim’ordine: niente mensole e tutto quello che normalmente dovrebbe starci sopra (libri, dischi, ecc) è appoggiato a terra, vari scatoloni di cartone sembrano sopperire all’insufficienza del piccolo armadio e, in generale, roba rammontata ovunque. Sulla parete fa bella mostra di sè un poster di Bob Marley e l’aria è densa di uno strano indefinito fetore, come di mozziconi vecchi, cane bagnato e cassonetto al sole.

Ho un brivido. Che razza di troll può abitare questa spelonca? Leggi tutto »

Il Giallo Laydo

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Cinque uomini, un cadavere e un cazzo in mano: dramma in 4 atti

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Era qualche anno fa. Il sottoscritto studiava all’università e tirava su due soldi facendo quello che capitava. In quel periodo lavoravo per un’impresa di pompe funebri: vestire i morti, chiuderli nella bara, portarli in chiesa e al cimitero, fingerti empatico con i parenti, assecondare le loro richieste del cazzo, che non sia mai che il morto ci resti male… quelle cose lì, insomma.

Fu una grigia e piovosa mattina di autunno che io e compari venimmo spediti ad un funerale, nella rupestre e rurale campagna a nord di Prato. L’allegra quando malaugurata armata Brancaleone era composta, oltre a me, da:

  • Pasquale: un lardoso terrone dalla non meglio precisata provenienza, stupido e ignorante come le bestie. Nonostante vivesse in Toscana da più di 30 anni, si esprimeva esclusivamente in quella inascoltabile mistura di indefinito terronide e pratese, tipica degli emigrati che non hanno mai imparato l’italiano, nè a casa loro nè qui.
  • Christian: un tossico talmente rincoglionito da cocaina e pasticche da sembrare più un handicappato mentale che un drogato. Aveva ottenuto il lavoro grazie all’intercessione di qualcuno dei servizi sociali, per la gioia dei suoi familiari, visto che quando non aveva i soldi si vendeva qualunque cosa trovasse in casa per pagarsi la droga. Di nobili natali: la madre era una vecchia mignotta locale e il padre un catanese che faceva i portafogli sul 20.
  • Leonardo: un segaligno e attempato frocione che somigliava a don Diego de la Vega con 30 anni in più. Spocchioso, supponente e con la toscanissima abitudine a non prendere nulla sul serio e a sfottere il prossima ad ogni occasione. Un mito!
  • Mbaye: un bravo ragazzo senegalese, il più serio e affidabile del gruppo, ma soverchiato dal preponderante disagio.

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Antologia del G: IV parte

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In ritardo di anni, pubblichiamo la quarta raccolta di telefonate del mai abbastanza compianto G (prima, seconda e terza).

Dalla beffa al gonzo di turno, all’iroso che urla. Dalla grulla del condominio, all’insospettabile segaiolo.

Risate, riflessione e disagio.

 

 

 

 

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Il regalo del cinese

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Cari degenerati, buonasera. La seguente tragica storia di vita vissuta fu scritta dal sottoscritto e inviata alla pagina Facebook di Laydo, per essere inserita tra i racconti dei lettori. Vista l’ennesima chiusura della pagina e la mia conoscenza diretta con uno degli admin di questo sito di merda, eccovela qua, rivista e corretta.

Dovete sapere che il sottoscritto faceva il portiere di notte in un sordido albergetto fuori città. Ci tengo a precisare che non sono uno di quei diti in culo con l’unghia rotta che commentavano sul blog firmandosi Eva Peres, Mago Otelma e loro compari.

Nonostante ciò credo che la situazione fosse più o meno simile alla loro. L’albergo è in periferia, su un nodo stradale molto percorso tra Firenze, Prato e Campi Bisenzio, e abbastanza a buon mercato, il che lo rende l’ideale per ragazzi che non vogliono scopare in macchina o, più facilmente, coppie clandestine e puttanieri con relativa mignotta. Alcuni anche abituali.

Uno dei suddetti puttanieri abituali era un cinese abbastanza danaroso che si presentava spesso con al seguito troiona variabile.

Arriviamo quindi alla sera in cui il suddetto muso giallo mi sbuca dalla porta, poco dopo mezzanotte, in compagnia della classica figa pseudo-loli asiatica che nei film porno non capisci mai se le piace o se si lamenta (ed è il suo bello).

Si avvicina la banco ridacchiando, ammiccando alla tipa e sputacchiando qua e là dalle esagerate fessure tra i suoi denti storti. Cioè quello che fa sempre. In ogni caso gli do le chiavi della sua camera preferita e mi rimetto tranquillamente a farmi i cazzi miei.

Estraggo da un cassetto l’autobiografia di Frank Zappa, mi sbraco sul divanetto e mi metto a leggere. Leggi tutto »

L’era del post-x: lettera aperta ad un popolo di svantaggiati

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Siamo passati dall’era della post ideologia, che ha spazzato via quasi un secolo di valori e principi, all’era della post verità, in cui non esiste più il vero o il falso ma tutto diventa opinione. Peggio, siamo nell’era del post it, in cui tutto deve essere espresso in una manciata di parole, perchè il lettore medio già alla seconda riga accusa un calo di zuccheri per lo sforzo e alla terza ha un ictus e dà la colpa alle scie chimiche. Peggio ancora, siamo nell’era del post su Facebook, in cui qualunque cazzata, con poche righe scritte ad hoc, in maiuscolo e con piglio anticasta può raccogliere consenso e diffusione da migliaia di persone che nemmeno l’hanno letto.

Ma tranquilli, Geppe ha la soluzione. Come si fa a sapere se una notizia è vera o falsa? Semplice, basta chiederlo allaggente. I vaccini fanno diventare autistici? Il riscaldamento globale non esiste? Ci stanno avvelenando con gli OGM? Il blog di Geppe è una macchina per far soldi? La stampa è corrotta e vi mente, ma non preoccupatevi. Un onesto e competente pool di casalinghe di Voghera, manovali di Casalpusterlengo e disoccupati di Afragola si occuperà di certificare le verità a cui potrete ciecamente credere.

E voi siete la feccia decerebrata che si pascerà di questo Völkischer Beobachter in salsa grillesca, così come vi pascete di tutti i cazzo di merdosi opinionisti che appestano questo paese. L’opinionista è già di per sè una figura ributtante, la cui esistenza è giustificata da chi non ha la testa per farsi una propria opinione, partendo dai fatti, ma ha comunque bisogno di qualcosa di cui parlare coi suoi pari al baretto. Adesso però stiamo andando ben oltre.

Voi siete la massa di idioti che, privi dei necessari strumenti culturali per far fronte ad un prepotente bias di conferma, non vogliono notizie vere per tenersi informati, ma semplicemente notizie che confermino le proprie convizioni. Voi non volete che qualcuno vi dica la verità. Volete semplicemente che vi si dica che avete ragione. Leggi tutto »

Speriamo che non è schifo!

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venerdì 1 aprile
Firenze centro
ore 22:15 circa

Io e l’amico Bercio varchiamo la soglia di un noto locale della zona, di cui siamo clienti abituali, con un ghigno satanico dipinto in volto. Dietro il banco ci attende il barman Cecco, al suo ultimo weekend di lavoro, che ci accoglie con un espressione carica di altrettanto luciferina soddisfazione.

Il locale si sta riempiendo, come consueto, oltre ai soliti habitué, della classica quota di turisti e studenti stranieri, in prevalenza americani e inglesi. In fondo, sul piccolo palco allestito per la musica live, D.M. sta barbonamente approntando ciarpame per il suo classico unplugged gradevole quanto un chiodo rugginoso piantato nel glande.

D.M., ove D. sta per un nome angloamericano e M. per un cognome italoterrone, è un obeso lercione del Massachussets in infradito che vive da diversi anni a Firenze, sbarcando il lunario con pezzenti unplugged di cover, in attesa di diventare una star.

Il grasso ominide, riunendo in sé la dabbenaggine americana e la cazzimma terronide, è uso tentare costantemente di fottere il prossimo ma, essendo  stupido come un tacchino down, finisce regolarmente col far scoprire i propri malaffari.

Per carità, non si parla di roba grave e delinquenziale, ma di atti meschini e miserabili tipo la maldicenza volta a rovinarti la piazza con qualche donna o rubarti la birra dando la colpa a qualcun altro. Il tutto corredato da un’eccessiva e ostentata cordialità, con sorrisi, strette di mano, abbracci, pacche sulle spalle e un grande spreco di bro.

Fu così che questo soggetto da schiaffi sul cazzo, ottenne il prevedibile risultato di restare sulle palle un po’ a tutti quanti abbiano avuto modo di conoscerlo, compreso lo staff dei locali, i clienti, i negri che vendono carabattole per strada, i bangla con le rose e, ovviamente, noi due.

Anzi, noi tre.

Facciamo due saluti, reclamiamo il nostro posto al banco, ordiniamo due birre e, con lesto movimento da spacciatore magrebino, deponiamo un pacchetto nelle mani del trepidante Cecco. Leggi tutto »

Kopi Luwak (una storia di disagio e di merda fumante)

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E’ uno di quei locali dove vai solo perchè proprio non puoi farne a meno, normalmente per accontentare una portatrice di vulva che vuoi scoparti.

In genere lo capisci subito dal nome, appena ti viene proposto, in che razza di indegno cacatoio pretenzioso ti toccherà pagare a caro prezzo l’insulto alla tua stessa intelligenza che ti appresti a subire col sorriso sulle labbra. Evocativi rimandi a (presunti?) ambienti lavorativi che precedentemente occupavano la struttura: “L’antica Fonderia”, “Il Bottonificio”, “La Manifattura Centrale” e altri nomi che, dietro un’immagine chic ma informale che fa arrapare gli hipster, celano oscure promesse di sodomia culturale, intellettiva e pecuniaria.

Ma la tipa ha un iPhone e un profilo su Tumblr, indossa grossi occhiali di plastica nera, un cappello fedora e talvolta (per fortuna non stasera) quelle orride Brogue coi buchini, per cui non resta che mordere il cuscino e sperare che là dietro non faccia poi così male.

Che poi, veniamo un attimo allo “chic”, che in questi ricercati concept restaurants si declina in shabby chic. Per attenerci ad una definizione ufficiale, potremmo dire che si tratta di un particolare stile di interior design dall’aspetto vissuto e dal sapore retrò, dove tutto sembra messo lì un po’ per caso ma in realtà è studiato fin nei minimi dettagli.

Ora arriviamo ad una definizione più onesta e realistica che può ragionevolmente essere economico ciarpame, spacciato per raffinato design che sapientemente simula economico ciarpame.

Il carpiato concettuale è ardito ma efficace. In poche parole arredi il tuo locale con vecchia monnezza che non stonerebbe in una topaia di Nairobi, rivolgendoti ad una raffinata clientela che non vedrà vecchia monnezza, ma un ricercato lavoro di stile che vuole sembrare vecchia monnezza.

Sì, sono scemi.

Ma pecunia non olet e io apprezzo chi si fotte brutalmente nell’ano questi sofisticati piglianculo. Non apprezzo invece chi mi trascina al loro livello, ma questo è un altro discorso. Leggi tutto »